A ormai un mese dalle elezioni amministrative sento la necessità di denunciare la sclerosi del dibattito pubblico foriano e gli amari paradossi di cui esso si alimenta. Il primo aspetto che salta subito all’occhio è la tendenza alla polarizzazione del voto. Se il richiamo al cosidetto “voto utile” è in qualche modo riconducibile ad una lettura delle opportunità che il sistema elettorale vigente offre, a me pare che in questa tornata elettorale tale appello si accinga ad essere accolto e interiorizzato dalla cittadinanza molto più che in passato. In verità sarebbe più corretto dire re-interpretato dalla cittadinanza, poiché la prima e paradossale conseguenza del richiamo a non disperdere il proprio voto su liste minori o terze è che ne esce una idea della politica e della democrazia alquanto mutilata, direi minimalista. Contano solo le elezioni, trasformate in una “corsa dei cavalli” e le opinioni, il dibattito sulla cosa pubblica, vengono a stento tollerati fintanto che non li si possa poi passare a misurare in termini di consenso e rapporti di forza tra i gruppi. La politica coincide cioè con il solo momento elettorale e il parere del singolo cittadino su questo o quel problema, su questo o quell’attore, viene immediatamente riferito e metabolizzato con l’appartenenza di quello stesso cittadino a questo o a quel gruppo, a questo o quell’attore. In questo clima, che so poi benissimo non essere dissimile da tante altre realtà locali, l’appello al voto utile della classe politica (scegliete Regine o Colella per intenderci), diventa per la cittadinanza foriana la scelta del “male minore”.
E già che le parole sono importanti in politica, direi che sono tutto, scegliere il “male minore” altro non significa che entrambi gli attori principali – ma il discorso può essere esteso anche ai vari Trofa, Castagliuolo, Manzi, Spataro, Di Maio, Monti e compagnia bella – non hanno un grande capitale di fiducia di cui disporre e tuttavia ci si orienta a votarli lo stesso, per l’ennesima volta.
Hanno il consenso, non la legittimità.
La cosa curiosa, che andrebbe approfondita, è come sia possibile che un sentimento di sfiducia, talvolta di aperta ostilità nei confronti della politica, da noi conviva benissimo con la masochistica riconferma dell’esistente.
Mi pare di poter dire che le vittime principali di questo paradosso che però è senso comune, sono Vito Iacono e Luciano Castaldi. Il primo paga un diffuso sentimento anti-casta per il fatto di “essere il figlio di”, tale che gli si contesta la possibilità di proporsi come attore del cambiamento, e tuttavia, a conferma di quanto sopra detto, lo si invita contestualmente e continuativamente alla “normalizzazione”. Scommetto sul fatto che ad un Vito Iacono, per così dire normalizzato, che scegliesse di stare o “acca’ o allà”, nessuno contesterebbe per incanto più nulla. Entrerebbe a far parte del paesaggio, un altro “cumpariello” affianco a quelli di sempre. Nei confronti di Luciano Castaldi la contestazione è doppia: da un lato, viene accusato di avere tradito e disperso l’originale purezza di Forio Futuro (mah?), dall’altro, di essere in qualche modo sotto tutela politica e addirittura lavorativa in ragione stavolta del suo “essere dipendente di”. Non mi soffermo oltre sulla strumentalità e bassezza di tali considerazioni, con le quali i nostri debbono in qualche modo convivere e pare tra l’altro ci riescano benissimo. Li invito anche io a saltare prima o poi il fosso e ad aprirsi al ventaglio delle infinite opportunità politiche che la comunità, partecipe fino all’inverosimile di questo gioco, e la classe politica locale offrono.
Ci si può alleare con tutti, prima e dopo la campagna elettorale, puoi tranquillamente fare l’opposizione per cinque anni e accordarti con quella maggioranza contro la quale hai lanciato le tue strali, puoi fare l’assessore a seguito di un ribaltone e poi lanciare appelli agli elettori affinchè non disperdano il prorio voto, puoi essere sulla scena da trent’anni, grane giudiziarie comprese, e invocare una nuova moralità pubblica, puoi, e questa secondo me è la più clamorosa di tutte, rilasciare un’intervista televisiva, promuovere un’assemblea pubblica, dichiarare in entrambi i casi chiuso un ciclo politico e poi cambiare idea il giorno dopo, sentita la base (meglio, sentito il proprio sistema di potere). Qui siamo all’apoteosi.
Stando così le cose e sfido chiunque a dire il contrario, resta l’ultima granitica convinzione dei più “realisti del re”, tra cui tanti miei coetanei, i cosidetti giovani. Recita così: «le cose si possono cambiare solo dall’interno». Già, ma l’interno di cosa?