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Disabilità, pregiudizi, barriere. Riflessioni tra “A disabilandia si tromba e Giornata della Memoria”

di Teresa Nadia Penniello. Il titolo “A disabilandia si tromba” del libro di Marina Cuollo (presentato a Forio da “Libereria Pierini” e il gruppo La stanza ) può scandalizzare, disgustare, sorprendere, far sorridere, sconvolgere, incuriosire, ma difficilmente lascia indifferenti. Qualche dubbio pure lo insinua: I disabili hanno desideri sessuali? Vengono sfiorati dal pensiero di volerli appagare? Fanno sesso? Se hanno questi bisogni uguali ai normodotati, possibile che ne abbiano anche altri, tipo farsi una famiglia, realizzarsi nella vita, partecipare alla vita sociale? (se le barriere architettoniche lo permettono). Se questi bisogni sono naturali per tutte le persone perché (con le opportune differenze relative alle specifiche disabilità) non dovrebbero esserlo per i disabili o meglio per le persone disabili?

L’espressione persona disabile, preferita dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, dà centralità alla parola persona, che accomuna tutti noi appartenenti al genere umano, e riduce disabile ad aggettivo che descrive una, solo una, delle infinite variabili che compongono ognuno di noi. Nessuno di buon senso potrebbe mai pensare che le variabili colore degli occhi, altezza, dieta, incidano sulla vita di una persona tanto quanto una disabilità gravemente invalidante, ma questo non toglie che restino tutte quello che sono, solo una parte del tutto, un aspetto della persona e non LA persona nella sua totalità. Se diamo per buono questo ragionamento possiamo valutare l’ipotesi che ritenere le persone disabili questo o quello in quanto disabili e non in quanto persone, ad esempio angelicate (sia nel senso di sempre e solo buone, sia nel senso di asessuate,) in realtà non sia proprio un fatto inoppugnabile ma un pregiudizio, pur umano e comprensibile, ma che chiude la persona disabile in uno schema rigido e limitante, e inoltre non ci stimola a cercare soluzioni a problemi che non vogliamo considerare.

I pregiudizi in fondo a volte ci semplificano l’esistenza, ci consentono di risolvere l’interazione con persone e situazioni in modo veloce e abbastanza soddisfacente. Il problema nasce quando i nostri pregiudizi a noi semplificano l’esistenza, a chi li subisce la complicano un bel po’. Il disabile percepito ( da altri e da se stesso) solo come “povero sfigato”, asessuato, senza desideri o aspirazioni se non quella di tirare a campare alla meno peggio, nel migliore (?) dei casi diventa oggetto delle attenzioni contese (richieste o meno) tra homo misericordiosus (cit. Marina Cuollo) che vuole assolutamente accudirlo, dall’alto della sua pietosa benevolenza, e il punisher che lo invita ad accettare rassegnato la sua situazione e sublimare il dolore verso mete spiritualmente più elevate; questo se tutto va bene, dato che tra le tipologie umane descritte da Marina troviamo anche l’homo indifferens, ovvero colui che anche se sei malato terminale ti cammina addosso e va avanti.

I pregiudizi in genere nascono da stereotipi ben consolidati e dati come verità assolute. Ad esempio esiste la credenza, a volte non cosciente,, che le variabili che ci descrivono e ci fanno appartenere a diversi gruppi (maschi, femmine, credenti, atei ecc), ci pongano in posizione verticale uno rispetto all’altro, secondo una gerarchia di qualità, meglio/ peggio, superiore/ inferiore. Quindi se io mi percepisco in un gruppo superiore ho due opzioni: 1) nazi spartana, secondo la quale se una persona non ha requisiti fisici, etnici, religiosi, di capacità, adeguati, è naturale ripulire il mondo facendo a meno di lei, come si ricorda con la giornata della memoria. 2) caritatevole, per cui percependomi fortunata ad essere nel gruppo superiore decido di donare un po’ di luce e sollievo agli sfigati del piano di sotto.

Dato che si tratta di una credenza diffusa (tra disabili e normodotati), ma non
obbligatoria e non scientificamente validata, esiste anche la possibilità di credere che le variabili che ci descrivono ci facciano appartenere ad insiemi e sottoinsiemi posti in posizione orizzontale uno rispetto all’altro, senza giudizio di qualità, secondo un principio di parità e valore equivalente, come sancito dall’articolo 3 della nostra Costituzione (Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, condizioni personali e sociali; è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona e l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica economica e sociale del paese).

In tal caso la persona disabile non può essere vista come un accattone a cui fare qualche gentilezza, o concedere qualche diritto nonostante la sua diversità, ma il cittadino a cui riconoscere in maniera piena e sostanziale i diritti in virtù della sua parità di persona, creando un contesto sociale accogliente, accessibile, inclusivo che non trasformi la disabilità in un handicap.


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