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Ischia tutto, diario di viaggio

Inviato da: nonnapicci Chi vuol venire come a vedere il paese dove maturano i limoni mi segua sul mare, sul mare freddo di febbraio, magari portandosi l’ombrello; chi vuole venire con me a scoprire rossi letti di camelie dietro un sontuoso ninfeo dall’intonaco sgretolato mi segua per stradine in cui la circolazione sarebbe vietata, ma insomma qualche macchina passa all’improvviso nei due sensi di marcia; chi vuol venire con me a godersi un idromassaggio con vista sul mare tranquillo non deve fare tante ore di aereo per raggiungere un tifone ai Caraibi, ma salire su un autobus mignon che si aggira tra le insenature di …… I miei pochi lettori mi perdoneranno per il plagio: questa è la parodia di uno dei più famosi incipit dei diari di viaggio: ho preso a prestito niente di meno che il prologo che Pierre Loti ha scritto come inizio del suo “Verso Isfahan”. Lettura cult per gli amanti di questo genere letterario, purtroppo, sconosciuta in Italia perché il libro in questione non è mai stato pubblicato in italiano. Insomma, sono partita dalla Persia per raccontare una vacanza meravigliosa che ho fatto quest’inverno e che è alla portata di tutte le tasche e praticamente dietro l’angolo per noi italiani. E’ l’isola d’Ischia, luminoso paradiso nel grigio febbraio, eden di ogni frutto e di ogni fiore, vero centro di relax perché, tra massaggi silenzi e vapori caldi, il sonno e i sogni scendono dolcemente a consolarci del caos giornaliero in cui ci tocca vivere. Ma andiamo per ordine. Arrivata a Napoli alla stazione Mergellina ho fatto due passi ed ero sul mare davanti all’imbarcadero per Ischia. Un po’ di foschia e nel mare appare Procida così vicina che m’immaginavo di raggiungerla a nuoto (ma d’estate, e quando tornerò fanciulla); si costeggia l’isola ed ecco che appare Ischia col suo porto rotondo dove l’aliscafo si infila tra i due moli, come due braccia che proteggono quel lago dalle onde del Tirreno. Sbarchiamo. Davanti a noi si apre il maestoso portale d’ingresso della villa-palazzo di Ferdinando II di Borbone, per grazia di Dio Re delle due Sicilie, nel primo ‘800. Il viale è lungo, ma non ci si può entrare perché oggi è di proprietà dell’esercito, che alloggia lì gli ufficiali che vanno a farsi i fanghi.
Però basta un’occhiata per notare il rigoglio della vegetazione, il verde intenso dei cespugli di oleandro e per terra un prato di acetosella, che luccica come l’oro. Per chi non la conosce l’acetosella (oxalis pres-caprae) assomiglia al trifoglio, e da Gaeta in giù illumina i prati d’inverno coi suoi ciuffetti di foglie rotonde, coi suoi steli carnosi che contengono un succo acidulo, e coi fiorellini a imbuto, giallo-oro che si chiudono pudicamente al tramonto. Immaginate un campo con alberi spogli, rami secchi caduti e accatastati, un rampicante o i tralci di vite potati: tutto sembra morto, ma l’acetosella se la ride dell’inverno e tutta allegra e gialla sbuca qua e là, anzi dappertutto se può. Ma per vederla ci vuole l’inverno, perché dopo Pasqua sparisce. Più avanti, c’è un muro che delimita un giardino tra due case, son pochi metri e dietro sbuca un limone, un albero così carico di frutti succosi, che sembra che nessuno ne abbai mai colto qualcuno: guardiamo un po’ come lo curano. No, niente, un po’ di erbaccia, di acetosella, non c’è traccia di vangatura e di concimi. Ma l’albero felice offre i suoi frutti al cielo, e qualcuno troppo maturo si spiaccica in terra e fertilizza il suolo. Non abbiamo ancora parlato del cielo. Ecco: il cielo è celeste, è grigio, è lievemente turchino, il sole si nasconde dietro una nebbiolina lieve che mette un punto di giallo in quell’aria cilestrina. Tutto è diverso dall’estate quando il blu cobalto fa da sfondo a un astro infuocato che strina le erbacce ed estrae i colori più selvaggi dalle piante che devono farsi notare stridendo, strillando. Questo cielo dolce, calmo ci promette una settimana serena, senza occhialoni da sole, senza scottature e la possibilità di osservare le sfumature, i toni diversi di ogni colore. Se a questo punto vi immaginate che io vi descriva gli alberghi che si incontrano e vi magnifichi i pregi di ognuno, beh vi siete sbagliati, non scrivo una guida turistica, ce ne sono anche troppe e forse non gli prestereste attenzione; no, io vi racconterò soltanto quelle piccole cose che hanno colpito la mia fantasia. Per esempio, osservate i vasi vicino alle porte, agli ingressi, ai balconi, appesi a un chiodo, dovunque: contengono agavi, rosette, lingue di suocera, ciclamini…Sono tutti diversi di forma, alcuni dipinti, altri colorati, altri ancora di coccio ma con tante decorazioni.
Questi vasi sono sempre stati una caratteristica di Ischia: i greci chiamavano l’isola Pithecusa, che secondo l’etimologia più corretta vorrebbe dire paese degli uomini-scimmia (si vede che a quei tempi non c’erano molti scambi e incroci e la popolazione non era molto bella), ma secondo un’altra tradizione si chiamava così perché era il paese dei vasai. So bene che i linguisti rideranno delle mie etimologie, ma oggi Pithecusa è l’isola di bella gente che sa ancora fare vasi. A proposito di nomi, Ischia ne ha cambiati una mezza dozzina. Noi la chiamiamo così da una corruzione napoletana dell’appellativo latino “insula”. I dotti poeti del ‘500 la chiamavano Aenaria (dal nome di Enea che nel suo viaggio verso il Tevere qui si riposò) e anche Inarime. Raccontavano delle fantasiose teorie sulla sua formazione, per esempio, che nella notte dei tempi Procida e Ischia erano state divelte dalla terraferma da un terremoto e lanciate nel mare e che Baia e Pozzuoli rimasero sole a piangere, avvelenate dalle esalazioni puzzolenti. Oppure che, nella lotta tra i Giganti che dà inizio alla mitologia greca, Zeus, il vincitore, condannasse Tifeo, suo oppositore, a essere imprigionato sotto il monte Epopeo (oggi Epomeo), e che i movimenti del gigante che non ha pace tra le bruciature delle folgori e la prigionia, siano la causa della nascita delle sorgenti calde. Più banalmente oggi che la poesia è morta e sepolta (e non produce neanche fumo o acqua calda) noi possiamo interrogare i geologi, o guardare il Vesuvio, o goderci un bagno caldo con idromassaggio, dono di natura. Dal porto partono due strade principali che vanno verso sinistra, verso il paese, gli alberghi, i caffè e i negozi: vi assicuro che sono passeggiate piacevoli e ben tenute in cui le tentazioni di un acquisto, di un caffè o di una pastarella sono difficili da vincere. Io amo una piazza rotonda che ha due bar al suo inizio e poi una chiesetta piccola piccola sormontata da una grande fastosa lapide: qui, nel dicembre del 1509, Ferrante D’Avalos sposò Vittoria Colonna. Sono entrata in questa chiesa che all’interno è ancora più piccola di quanto sembri: c’erano due suorine inginocchiate davanti al Santissimo. Nessuna ricchezza, né marmi barocchi, né ricchi azulejos, né cupe pale d’altare.
L’intonaco crema rifletteva la morbida luce del mattino. Perché sarà stata scelta per quelle nozze di stato tra due rampolli promessi sposi fin dalla nascita? E il tempo sarà stato clemente permettendo ai nobili parenti la partenza da Napoli e la presenza al banchetto? Raggi d’oro avranno consolato gli sposini, avranno scaldato i loro corpi intimiditi? Vedo tra gli allori, tra i lecci, tra i rami di pino scendere il grato tepore del sole, che oggi fa dimenticare l’inverno. Ogni tanto però la bufera, la tempesta si scatena anche qui e non sappiamo se quel 27 dicembre fosse stato sciupato da un vento odioso o da una pioggia torrenziale, e se gli sposi e i parenti che in chiesa non avevano trovato posto, furono costretti a scappare fra le raffiche verso il Castello, che non è tanto vicino, coi cavalli innervositi che scalciavano sul selciato. Io penso che il sole abbia illuminato il sì di Vittoria, sentite perché: si dice comunemente “sposa bagnata sposa fortunata”, ma il matrimonio della Colonna non si può definire fortunato, sulla coppia è stato scritto di tutto, che lei era frigida, che lui la tradiva. Lui passò la maggior parte dei suoi pochi anni in guerra e morì di conseguenza delle ferite; lei a quel punto aveva scoperto d’esserne innamorata e lo pianse per 7 anni… Non dico altro, perché troppi più grandi di me hanno inzuppato il loro pane in questa storia. Comunque sia andata chi c’era non ce l’ha lasciato detto: però almeno sappiamo qual’era l’aspetto di Vittoria. La sua chiacchierata amicizia con Michelangelo ci consente di ammirarne la bellezza severa. Lineamenti classici, acconciatura dei capelli ricca ma seriosa, spalle ampie, busto eretto, è una bellezza meridionale che ha coscienza del suo potere e delle sue qualità. Vive in un periodo durissimo di lotte tragiche tra il re di Napoli, fedele al papato, e l’imperatore Carlo Quinto, che culmineranno nel sacco di Roma del 1527. Sia la famiglia Colonna, in cui nasce, sia la famiglia d’Avalos, in cui entra come sposa, sono pesantemente coinvolte nella politica e nella guerra. E’ finito il tempo delle lievi ragazze fiorentine che danzano avvolte in veli o travestite da Primavere o da Madonne. Vittoria è una donna che fa politica e che vuole vincere (nomen omen, come le ripetono i poeti di corte nei loro componimenti), e questo si legge da come ci guarda nelle tele firmate da Sebastiano del Piombo.
Anche quando viene raffigurata come Sant’Agata, con nello sfondo una graziosa fruttiera che contiene i suoi seni, beh non ha l’aria di una fanciulla brutalmente martirizzata, ma piuttosto di una grande manager che sa di poter mettere un patrimonio a disposizione del partito che lei sceglierà. Comunque, consiglio una sosta raccolta nella piazza in modo da lasciare un saluto agli spiriti grandi che un tempo vi si inginocchiarono. E beviamoci un caffè alla loro memoria. Di fronte alla chiesa c’è il giardino pubblico, ma l’ho trovato chiuso. Incamminandosi sulla destra verso l’interno s’incontra un altro grande parco molto ben fatto: si percorrono dei viali ombrosi che saranno piacevolissimi in estate e adesso sono illuminati dal bianco splendore della fioritura del viburno (Viburnum tinus). L’erica arborea ha la forma di cipressetti e in questa stagione si ricopre dei suoi minuscoli fiori bianchi che le danno un aspetto surreale. Più in là mi richiama il rosso corallo di una pianta spontanea che ha colonizzato il lato scosceso della collinetta; è una specie botanica del comune gladiolo, fiore passato di moda, in uso solo per le corone mortuarie, eppure, così elegante e ricco adesso che la fioritura delle cultivar usate dai fiorai è lontana: qui, a febbraio, dondola i suoi steli leggeri inseguendo i raggi di sole, come fa da millenni, da quando si è mosso dalle coste africane per fare il giro del Mediterraneo. I rosmarini sono più alti di me e sono ricoperti dai loro fiorellini blu cielo: penso che alla maggioranza dei turisti sembrerà un’assurdità collegare questi enormi cespugli fioriti al rametto mezzo secco che usano per insaporire le patate. Oggi vi vorrei portare verso la zona del Castello. E’la zona più vecchia di Ischia e quella più popolare e abitata anche d’inverno. La strada che ci conduce passa tra due file di case alcune delle quali sono ville eleganti, o meglio palazzotti ottocenteschi, che hanno conservato un vasto giardino. Per esempio villa*** è un lungo palazzo a due piani con un semplice portale che dà sulla strada e una lunga serie di finestre a destra e sinistra. Alle due estremità si aprono due cancellate in ferro che fanno da ingresso alle due parti del giardino circondate dal muro.
Dall’altro lato della strada c’è una piazzetta con uno di quei poveri giardinetti sudici che si fanno oggi a beneficio dei cani. E siamo sul mare, con una lingua di sabbia appena arrotondata e l’acqua limpida, una barca di legno tirata in secco: davanti Procida verde, che nasconde l’arco del golfo di Napoli, a destra l’apparizione onirica del Castello Aragonese. Mi vedo davanti agli occhi il conte *** quando scelse l’ubicazione del suo costruendo palazzotto, vicino al borgo e dinanzi alla marina, con la possibilità di scendere dalla barca con cui arrivava da Napoli davanti all’uscio di casa sua, sul suo terreno, che aveva fatto ingentilire piantandoci pini, lecci, araucarie e poi limoni, aranci e mandarini: il profumo del mare e il profumo delle zagare, il piacere di godersi il sole sotto il riparo delle verdi chiome. Immagino il conte che graziosamente permetteva ai pescatori di usare il suo approdo, magari in cambio di qualche spigola o di una bella cernia ancora viva; così come gli scugnizzi potevano giocare e tuffarsi in libertà, puniti solo da qualche tirata d’orecchi quando strillavano troppo. Ma il pragmatico regno Savoia, oppure la nostra duramente conquistata Repubblica nelle vesti di un sindaco egualitario, pensò bene di espropriare al signor conte la parte del giardino antistante la casa, di asfaltare la strada, e di riconsegnare al popolo la proprietà della spiaggetta. E così adesso il palazzo affaccia direttamente sulla strada e il giardino piuttosto abbandonato si nasconde dietro le cancellate. Ragionando abbiamo ancora la possibilità di vedere in sogno il mondo come fu. Sulla sinistra si incontra una villa anni ’60 che nel giardino amorosamente alleva una euforbia gigantesca (Euphorbia Triangularis) che si appoggia al muro. E’ una pianta di un’imponenza incredibile, esemplari così si devono cercare nei giardini botanici delle Canarie o di Madeira. Poiché le case la riparano dai venti del mare si è sviluppata a suo agio, come un enorme mazzo di steli che si protende verso il cielo. E’ curata molto bene perché i suoi rami di succulenta sono fragili e se non sono assicurati con intelligenza possono cadere e provocare dei guai con il loro peso e con le loro spine.
E’ uno straordinario spettacolo della forza e dell’armonia della natura. Ed eccoci al borgo: ha un’ aria sempliciotta da sceneggiata napoletana. Le chiese si sprecano, in una gara di barocco, una sinfonia di gialli e di crema, di incavi, di lesene, di aggetti, di qualche angioletto. Panni stesi e vasi di piante. Una scenografia pronta per Totò. Nella piazzetta tavoli di trattorie sotto i tendoni. E qui siamo stati invitati da un ragazzo gentile che non ha nulla di napoletano tranne l’accento. E’ biondo, minuto e ha studiato filologia germanica, ma ha messo dapparte le sue conoscenze per occuparsi di moda. Però è rimasto il nipote preferito di una signora che gestisce la trattoria nella suddetta piazzetta e lì ci invita a gustare le pietanze tradizionali isolane. Non è un gran piacere gustare una frittura di pesci che sono stati appena pescati nel mare lì davanti? O qualche triglia a scapece? O dei teneri carciofi al tegame? O una divina, indimenticabile parmigiana? A questo punto mi sono alzata, sono andata in cucina dalla zia e le ho chiesto quale fosse il suo segreto per cucinare quel cibo per gli dei, quella delizia per i sultani, una squisitezza tale per far svenire l’imam (mi servo di espressioni tipiche della cucina turca perché anche lì ci sono ricette paradisiache). Vi racconto la ricetta perché magari qualcuno di voi si metterà ai fornelli per provare la gioia di un piatto antico e perfetto. Si prendono delle melanzane scure e si tagliano a fette per lungo, eliminando prima la buccia. Poi si friggono in olio abbondante. Intanto si era preparata una salsa di pomodoro con pomodori freschi, un po’ di cipolla e di basilico: non dev’essere né troppo ristretta né troppo saporita. La cucina partenopea è un equilibrio di aromi e di sapori, in cui le spezie non devono mai prevaricare il gusto naturale degli ortaggi o in genere della materia prima; tutto si amalgama in una sinfonia il cui scopo è il piacere del palato che la mente fa fatica a indagare e a incasellare. Ma andiamo avanti. Ci vuole un bel mucchietto di parmigiano grattugiato e niente mozzarella, men che mai di bufala. La vera bufala è che ormai dovunque in Italia queste bufale te le somministrano dappertutto, sulla pizza “pomodoro e pachino”, la cui pasta croccante si ammoscia al contatto della troppa acqua contenuta nella mozzarella, nella “caprese” che unisce fettone di mozzarella di fabbrica a pomodori insulsi ecc.
La mozzarella di bufala è una palla schiacciata di 30 cm. di diametro, che si compra, si porta a casa nel suo latticello, NON SI METTE IN FRIGORIFERO, e si mangia in buona compagnia concentrandosi sul quel plop che si produce quando dal taglio esce la goccia del suo morbido cuore. Ed è una specialità proprio perché si mangia raramente e non si infila dappertutto. Ma continuiamo nella preparazione della parmigiana. Si prende una grande padella, vi si versa qualche cucchiaio di pomodoro, si fa uno strato di melanzane, ancora salsa e parmigiano abbondante e così si continua fino alla fine degli ingredienti, poi si prendono delle uova, diciamo 4 per una grande padella, si sbattono come per la frittata e si versano su tutto. A questo punto si porta la padella sul fornello, coperta dal coperchio e a fuoco basso, con calma, senza ansia né fretta, si lascia cuocere finché non sia rappresa e poco poco colorita. La parmigiana è pronta ma deve riposare nella sua teglia perché non si mangia calda. Ho l’acquolina in bocca, ma dov’è un caffè napoletano per chiudere in bellezza? Qualcuno dei miei lettori a questo punto si domanderà se io vedo il TG, se leggo i giornali e se ho sentito parlare di Gomorra. Come mi sono sognata questa Campania Felix? E i mucchi di spazzatura? E le sparatorie tra le bande? E i morti per strada? Giuro che a Ischia io non ho mai visto niente. Tutto è lindo, pulito, fiorito. I sindaci dei vari comuni si sono organizzati per spiegare ai cittadini come si fa la raccolta differenziata, dividendo la carta, dal vetro e dalla plastica (che va sciacquata prima di introdurla nei cassonetti) e naturalmente dall’ “umido”. Appena avranno imparato non ci saranno scuse per chi sporca il suolo pubblico. Perché Ischia è un po’ la Romagna del sud, con una vocazione particolare e condivisa nell’accoglienza dei turisti. Certo passeggiando lo sguardo cade senza volere su un albergone un po’ troppo in riva al mare, 300 camere nuove nuove, è possibile che sia tutto in regola? E certi caffè che anni fa erano normali bar di paese, come si sono allargati a macchia d’olio esibendo il loro logo in tanti punti dell’isola? Il cemento aumenta, il numero di macchine pure, il traffico ha poche regole e pochi controlli.
Ho visto senza volerlo e non voglio approfondire. Perché? mi chiederete. Perché ho lasciato per distrazione la carta di credito in un negozio e la proprietaria ha fatto una inchiesta per ritrovarmi e riconsegnarmela, attraverso tutte le filiali del banco di Napoli. E tutto questo prima che io mi fossi resa conto della mia sbadataggine. Perché questo piccolo fatto dimostra che anche qui le persone sarebbero oneste. E poi perché il mondo è storto, qui come altrove e ieri come oggi, ma a Ischia fioriscono i limoni e se ci abituiamo a osservarli, a trarre piacere dal profumo di zagara, a notare le malve invadenti che dal ciglio si insinuano sotto l’asfalto, a godere del puro azzurro dei fiori di cicoria, a notare come le tenere gemme si fanno spazio per rompere la corteccia dei rami contorti e riportare in vita il legno secco, abbiamo trovato una via parallela per uscire dai problemi. Ovvietà? Banalità? Vi propongo tre immagini del passato. Oggi, febbraio 2008, c’è un angolo a destra nel porto di Ischia in cui la natura ha riunito con mano sicura aloe e gladioli e del verde e ha fatto fiorire in contemporanea le piante aggrappate a un po’ di roccia verticale, di rosso di arancio e di verde contro l’azzurro del mare. Il porto è moderno, ma l’insenatura è la stessa di quando 2000 anni fa Plinio ammiraglio della flotta vide da Capo Miseno il Vesuvio impazzito eruttare fuoco e pietre sull’elegante Pompei e Ercolano venire sommersa dal maremoto. Una tragedia che si è conservata nelle viscere della terra come un fotofinish. Ma con sovrana indifferenza il mirto dall’alto della scogliera si ingioiellava di bianchi petali e di stami leggeri, mentre lo strato di cenere che aveva eliminato Pompei ancora era tiepido. Un altro flash. Siamo nel 1799, un’estate atroce per Napoli, una stagione in cui l’intellighenzia della più bella capitale d’Europa fu decimata a causa del terrore che incuteva ai sovrani la possibilità che da essa partisse quella scintilla che aveva causato il crollo della monarchia e della nobiltà francese. Ebbene fra quelli di tanti disperati c’è un corpo che galleggia in mezzo al golfo: è quello dell’ammiraglio Francesco Caracciolo, duca di Roccaromana, che è stato giustiziato e gettato ai pesci.
Nel mare tranquillo davanti all’isola d’Ischia. Chi passa per Napoli si fermi a vedere al museo di San Martino il quadro che immortala quel terribile momento storico. Eppure in quei giorni di fine luglio i rossi fiori dei melograni si stavano trasformando in grossi frutti zeppi di chicchi magenta. Quell’anno come ogni anno, come faranno quest’anno nella prossima estate. Nel 1944 come tutti sanno Napoli fu salvata dagli alleati: ma allora più che mai infuriò la povertà, la fame, la disperazione, la prostituzione, il contrabbando ecc ecc. Ma i limoni innocenti continuavano a fiorire e a produrre quei frutti, detti di Amalfi, che sono diffusi in tutta la costa partenopea. Mi sono permessa di ricordare queste tragedie per sottolineare il fatto che il Regno Vegetale se si impara a osservarlo, è come una Comunità che offre un rifugio, una via laterale di salvezza, una fuga dalle angosce, perché coi sui tempi ripetitivi ma biblici, ti trasporta in una dimensione diversa in cui si partecipa all’energia insita nella Natura che, indifferente alle follie umane, continua a far sbocciare ginestre sul Vesuvio. E’ come l’acqua del fiume che acquieta l’orientale seduto sulla riva, è come il corso delle stelle che affascina i Magi. Una passeggiata a Ischia d’inverno invita a avvicinare questo mondo così vicino e così lontano dalla nostra vita quotidiana. Perché qui i profumi, i colori, la forza stessa del suolo vulcanico mandano dei messaggi così forti che anche il turista distratto ne sarà conquistato. Meglio far queste esperienze d’inverno perché si è meno distratti dal luccichio del mare, dal sole ardente che secca e fa scomparire tante umili presenze del bosco, perché non si è affaticati dai tuffi e dai riti dell’abbronzatura, e si fa presto a notare quel raggio tra le nubi che colpisce le screziature bianche del fiore della camelia tra le foglie coriacee. E quando si avrà l’abitudine a osservare la varietà e lo splendore del Regno Vegetale lo si saprà riconoscere sempre e dovunque; un pergolato di glicine, una spalliera di rose un campo di girasoli avranno su di noi un forte potere rasserenante perché ci introducono in un metamondo fuori dalle beghe politiche e private. Perché filosofeggiare invece di raccontare il piacere di un bagno alle terme Castiglione? E’ l’unico stabilimento aperto in questa stagione.
Parlo dei grandi parchi termali tipo Poseidon, Afrodite ecc che vantano un numero infinito di piscine all’aperto a varie temperature, che adesso ovviamente non si possono usare per via del sole che fa i dispetti e dei venti marini che intizzirebbero le nostre schiene dopo il beneficio delle acque. Lo stabilimento Castiglione credo che sia il più vecchio dell’isola, è orientato a nord e possiede, per scendere comodamente dalla strada verso il mare, una piccola funicolare che funziona come un ascensore: appena arriva un cliente il portiere lo va a prendere e naturalmente riaccompagna chi se ne va. Perciò si arriva facilmente a questo grande capannone a vetrate che guardano il mare e in fondo la costa settentrionale. Le piscine al coperto sono tre, due caldissime e piene di getti a differenti altezze che massaggiano proprio ogni punto del corpo, e l’ultima un po’ più grande e più fresca in modo da permettere la ginnastica acquatica. In due parole: si galleggia solleticati dalle bollicine con gli occhi fissi sul sole che se ne va lasciando il mare grigio e triste. Un piacere estenuante e malinconico. Poi si può passare nella grotta iper-riscaldata, o abbandonarsi alle cure competenti della zona massaggi. I bagni caldi vanno fatti con moderazione, non più di un quarto d’ora, anche se stando a mollo ci si sente in paradiso e si fa presto a dimenticare i saggi consigli che ci hanno impartito all’entrata. Ci vuole forza di volontà per scuotersi dal dolce torpore che ti assale mentre l’idromassaggio ti solletica la schiena e invece fare un salto fuori dal comodo grembo dell’acqua e asciugarsi in fretta. Chi si abbandona a quel piacere la pagherà l’indomani: si sveglierà con mille dolori, se non con un inizio di sciatica e maledirà l’acqua di Ischia. Ma la colpa è solo sua, quelle acque sono portentose per curare dolori reumatici, problemi della pelle e quant’altro però, come in tutte le cure bisogna essere ligi alle prescrizioni. Chi berrebbe tutto il flacone dello sciroppo per la tosse in una sola volta? Solo i Gianburrasca di un tempo, che poi erano puniti dal mal di pancia. E così sono le acque termali: vanno prese cum grano salis, perché non sono salate. Poiché ci eravamo attenuti alle prescrizioni dopo il bagno non eravamo distrutti con la pressione sotto la minima e potemmo fare un’altra esperienza piacevolissima.
Ischia porto ha nel centro una sala modernissima polifunzionale che in febbraio ospita un festival teatrale. C’era uno spettacolo quella sera, una farsa in puro dialetto napoletano; la scenografia rappresentava una casa di campagna com’era negli anni ’50. C’era una famiglia tradizionale con figlia da maritare e i vari pretendenti che portano in scena i loro ovvi difetti in confronto alle virtù dell’innamorato segreto…Eppure questo canovaccio mille volte déjà vu era talmente arricchito dall’incomparabile bravura degli attori, dalla loro spigliatezza, dalle improvvisazioni tipo commedia dell’arte, che ci regalò due ore di risate ininterrotte. Era l’essenza stessa del teatro: attori che non saranno mai famosi, ma che hanno la capacità di trasmettere i sentimenti dei personaggi interpretati e quindi di trasportare e di coinvolgere gli spettatori in storie “altre” dalla vita comune. Un ricordo: un personaggio racconta di aver preso a sassate qualcuno che lo disturbava e parla di “prête”. Ascoltando la concitazione del dialetto, intercalato dalla mimica e dal quel ritmo tipico di Napoli fatto di urla, di enfasi, di parole smozzicate, avevo capito che i sassi erano indirizzati a un prete: invece no, era uno dei personaggi che fuori scena si era preso “e prète”, le pietre, le sassate. Questo è quello che ho visto a Ischia in qualche giorno d’inverno e io so che è un’isola bellissima, che la gente è buona e gentile. La mia esperienza è un’altra faccia della medaglia nella esposizione della verità. Per questo motivo la voglio dedicare a Roberto Saviano, perché come lui così ognuno di noi può contribuire a far sì che la Campania ridiventi Felix.

Corriere.it


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