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Politica e integrazione: la parola ai tunisini dell’isola d’Ischia

Dopo l’attentato al Museo del Bardo di Tunisi, le sensazioni della più antica e radicata comunità di immigrati sull’isola d’Ischia.

di Emanuele Verde
. Ho sempre pensato che l’Italia – specie il Sud Italia – avesse molte cose in comune col Maghreb. A partire dai tramonti (al-Maghrib significa appunto “luogo del tramonto“) passando per l’alimentazione, sono sempre stato dell’idea che siano molte più cose a unirci di quante, invece, ci dividano. A Ischia, poi, veneriamo una martire tunisina, Santa Restituta, il che dovrebbe fugare ogni dubbio riguardo certe affinità. Dovrebbe, perchè il dubbio, o meglio, la paura, al contrario, sta erodendo ogni certezza.

La paura si chiama “Daesh”, o “Isis” come dicono gli americani fin dalla comparsa sulla scena del Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi. Una paura che rimbalza ogni giorno sui media di tutto il mondo con notizie di morte e distruzione dalla Siria fino alla Tunisia; l’unica nazione, tra quelle interessate dalla “primavera araba”, a concludere positivamente la sua transizione democratica. Al potere, infatti, c’è dal 2014, “Nida Tunis”, un partito laico che strizza l’occhio all’Occidente e ha iniziato un faticoso percorso di riforme per liberarsi legislativamente dalle “tossine” della lunga stagione di Ben Ali.

Mentre però sembra compiersi il destino riformatore della nazione, sempre più tunisini, soprattutto dall’interno del paese, partono alla volta di Siria e Libia per arruolarsi nel Daesh. Un’evidente contraddizione, confermata, tra l’altro, dal tragico attentato al Museo del Bardo di Tunisi questa settimana. Evidentemente, come osservava qualche giorno fa Domenico Quirico su “La Stampa”, le elezioni, da sole, non hanno alcuna funzione scaramantica, nemmeno se a vincere sono “i nostri, quelli in giacca e cravatta“.

Ho parlato di questo, e di tanto altro, con Hamed Mrad Amedeo per gli amici -, fondatore e presidente dell'”Associazione Tunisini ad Ischia“, una onlus attiva sull’isola dal 2007 che offre assistenza sanitaria, burocratica, legale agli immigrati (non solo tunisini) residenti sul nostro territorio. La prima cosa che mi ha detto Hamed, quasi a parare l’obiezione più ricorrente in questi anni, è che effettivamente non c’è nessun Islam moderato da opporre al fondamentalismo. La differenza, non solo semantica, è tra islamici e islamisti, o a un livello maggiore di complessità, tra chi intende il “jihād” (la guerra santa) innanzitutto come tensione spirituale, e a limite anche militare (in funzione difensiva), e chi, invece, non disgiunge i due momenti.

Va detto, anche così siamo lontanissimi dal rendere la complessità di una questione che incrocia dispute teologiche ad altre di natura etnica e geografica all’interno del mondo musulmano. Basti sapere, ed è il secondo spunto interessante suggerito da Hamed, che c’è conflitto anche tra Al-Qaida e l’Isis. Tra i motivi di disaccordo delle due organizzazioni c’è la scelta di Abu Bakr al-Baghdadi di stipendiare le sue milizie in aperta contraddizione con la natura idealistica del “jihād“.

E qui veniamo appunto alla Tunisia. Molti giovani tunisini si arruolano nelle milizie del Califfo per ragioni economiche, sperando che sei-otto mesi passati al fronte in Iraq, in Siria, in Libia, siano sufficienti a mettere da parte quel gruzzolo da reinvestire in un’attività in patria. In patria, avete letto bene, e non più, o non solo, per venire da noi in Occidente. Perchè, e veniamo al terzo spunto di riflessione, più che un rifiuto della modernità (al contrario, l’uso meticoloso dei media a fini propagandistici denota dimistichezza con la tecnologia) c’è un rifiuto sempre più forte delle lusinghe del mondo occidentale.

Qua sta il cuore del problema. I modelli di integrazione fin qui sperimentati non sono riusciti a evitare che il rifiuto dei valori occidentali si insinuasse nelle coscienze di immigrati di seconda e terza generazione; o si insinuasse, come sta accadendo, nella testa di tanti giovani tunisini, che preferiscono rischiare la vita in Siria e Libia anziché su un barcone diretto a Lampedusa. Un’evoluzione terribile, disperata, che lascia annichilito chi, come Hamed, vive da 25 anni a Ischia.

Gli ultimi tunisini arrivati – ha riferito Hamed – vivono sull’isola da non meno di 5 anni (Abdel e Hichem, gli amici di Hamed nella foto da oltre 15 anni). La maggior parte a Forio, che tra i tanti primati annovera anche la più alta concentrazione di popolazione immigrata (non solo tunisini) sul numero dei residenti. Una situazione non facile da gestire, perchè l’integrazione non è mai scontata, ed è proprio questo il terreno su cui lavora Hamed che di mestiere fa il mediatore culturale.

Quella tunisina – mi ha detto con un pizzico di orgoglio – è una comunità compatta e perfettamente integrata sull’isola, annunciando anche l’intenzione, di qui a poco, di organizzare serate etniche per far conoscere la cultura tunisina dalla musica al cibo. Personalmente non vedo l’ora di partecipare a queste serate, un po’ perchè sono curioso di assaggiare il mitico cous cous, ma soprattutto perchè ritengo non ci sia alternativa credibile alla convivenza. Non solo come dato politico, ma proprio come fatto biologico. O ci mescoliamo, o moriamo. Del resto, se non fosse stato per le razzie turche sulle coste dell’isola, gli ischitani sarebbero belli che estinti da un pezzo. I foriani poi…

A parte le battute, l’auspicio è che l’Italia torni a giocare un ruolo politico decisivo sulle coste del Nord Africa. Per adesso, in Tunisia ci sono tanti imprenditori italiani, soprattutto dell’agro-alimentare, ma non ancora una visione strategica come in parte avveniva nella vituperata prima Repubblica di Craxi e Andreotti. Nella speranza (vana?) che la stagione di Renzi non sia solo la “Repubblica dei selfie” raccontata dal giornalista de “L’Espresso” Marco Damilano.

tunisini onlus


1 Commento, Commenta o fai un Ping

  1. norman - Data: 24/3/2015 21:49:12 - IP: 87.7.197.xxx

    Ottimo articolo, Solo il rapporto umano diretto fuga tensioni e terror panico, anche se i problemi restano e i pericoli pure.
    D’altronde basta ripensare ai nostri anni 70.
    I ” nemici “, i terroristi, erano compagni con cui si parlava ( prima che sceglieressero la clandestinita’). In alcune grandi citta’ del Nord l’attentato era all’ordine del giorno, un fatto della vita.
    Non rimpiango certo quei tempi, ma lo dico perche’ e’ facile farsi manovrare politicamente quando si e’ spaventati ed e’ quello che furbescamente si cerca di fare anche da noi. Non caschiamoci,

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